prof. Lorenzo Caselli – professore emerito Università di Genova
La scienza si rivela oggi come una forza direttamente e immediatamente produttiva, potenzialmente in grado di trasformarsi in tecnologia, prodotto, organizzazione, sistema sociale. Il tutto secondo dinamiche autopropulsive e multidirezionali che creano, a loro volta, opportunità per l’ulteriore progredire della scienza e delle sue applicazioni secondo modalità non sempre prevedibili, programmabili, controllabili.
Abbiamo di fronte un grosso rischio. Quello di una sorta di neoscientismo secondo cui il sapere scientifico e le sue applicazioni vengono percepiti e vissuti come il vero, unico, grande processo senza soggetti (tutt’al più questi rimangono sullo sfondo) e quindi, in definitiva, senza etica. Alcuni fatti spingono in tale direzione. Si pensi soltanto alla crescente dipendenza di ogni attività umana da supporti e mezzi tecnici (nel campo della medicina, dell’istruzione, della comunicazione, della produzione, della finanza); alla crescente mediazione artificiale nei rapporti interpersonali (mediazione che si realizza attraverso standard, software, algoritmi, piattaforme); alla organizzazione sistemico – complessa del del vivere nelle sue molteplici manifestazioni.
Trattasi di sistemi nel cui ambito i soggetti finiscono con il diventare oggetti, appendici di nuove “catene di montaggio” invisibili e imprendibili. Soggetti che sempre più appaiono:
- sottomessi all’avvenimento scientifico-tecnologico (si pensi alla sua spettacolarizzazione);
- spossessati del reale ovvero senza alcuna capacità di presa rispetto ad una situazione che non si comprende;
- progressivamente privati dell’esperienza spazio-temporale. Spazio e tempo vengono diluiti nella “fiction” fino a far perdere la memoria del passato e il gusto per la scommessa del futuro.
Nel dibattito in tema di rapporto tra progresso scientifico – tecnologico e futuro dell’uomo non si può rimanere in superficie, occorre entrare dentro i problemi cogliendone le valenze e le implicazioni soprattutto antropologiche a partire da questa constatazione: le ICT non sono soltanto degli strumenti, costituiscono un ambiente socio culturale, possono cambiare chi le usa e il mondo intorno a noi. In meglio o in peggio? Al riguardo vi sono alcuni passaggi, a nostro avviso, ineludibili.
Il primo. L’innovazione tecnologica si sta muovendo nel senso di una liberazione dell’uomo da compiti faticosi, ripetitivi, nel senso di un ritrovamento di autonomia e libertà nell’uso del tempo per lo sviluppo della persona oppure registriamo il pericolo di una neorobotizzazione del soggetto, dell’accentuazione della sua passività nei confronti dei media informatici e comunicativi, dei sistemi di intelligenza artificiale con la conseguente rinuncia alla autonomia della ricerca, della riflessione, dello spirito critico? Il caso ChatGPT è emblematico al riguardo.
Il secondo. La rivoluzione digitale sta procedendo nel senso di rendere possibile l’accesso sempre più largo all’insieme del sapere oppure registriamo l’indebolimento dei processi di conoscenza, di acculturazione? Certamente le strumentazioni su cui l’intelligenza può contare risultano enormemente potenziate. Tuttavia non va sottovalutato il rischio che l’intelligenza si renda funzionale al sistema, alla rete e si esprima in linguaggi appiattiti, banali. Poter scegliere tra più programmi preconfezionati non sempre è garanzia di libertà, ma al contrario creazione artificiosa di alternative e quindi rinuncia a scegliere il difficile, l’impegnativo.
Il terzo. Nei nuovi modi di vivere è rinvenibile la tendenza al decentramento, alla demassificazione, al ritorno alla convivialità oppure registriamo l’affievolimento dell’informale, del dialogo, della comunicazione amicale e affettiva? La società del “noi” oppure la società sommatoria di singoli individui?
Il quarto. Grazie alle nuove tecnologie è possibile operare per la riduzione delle diseguaglianze sociali, economiche, culturali oppure riscontriamo l’accentuazione degli squilibri, delle frammentazioni, delle divaricazioni tra chi è inserito nella rete e chi ne è escluso? Il tema del lavoro si colloca in questa ottica.
Il quinto. Le nuove tecnologie favoriscono l’integrazione sinergica tra mercato, stato, democrazia oppure generano cortocircuiti che possono portare tanto a un capitalismo di sorveglianza quanto a uno Stato controllore? Democrazia oppure datacrazia?
Mai come in questo momento ci si rende conto che sui terreni della scienza e della tecnologia occorre riacquistare in progettualità, responsabilità, partecipazione riscoprendo i legami con l’etica, la cultura, la politica e –perché no?- la democrazia. Occorre un’escalation di consapevolezza. Consapevolezza che stanno radicalmente cambiando i nostri modi di vivere; di rapporto con noi stessi, con gli altri, con l’ambiente. Consapevolezza che il mondo – pur nelle contrapposizioni – diventa sempre più interdipendente. Consapevolezza dei problemi e delle sfide inedite cui occorre far fronte. Certamente la sensazione prevalente è di dubbio, di incertezza in ordine alle potenzialità e ai rischi connessi allo sviluppo scientifico e tecnologico. Come venirne fuori?
Più strade sono possibili. Il sapere scientifico (come sistema di conoscenze e insieme di attività) non è deterministico, ma bensì fonte di scelte molteplici e differenziate, tali da richiedere l’intervento determinante dei soggetti nella produzione, selezione e uso del sapere stesso. Ma quali soggetti sono oggi in grado di prendere effettivamente parola?
Le nuove tecnologie convergenti presentano molti gradi di libertà, sono intrinsecamente pluralistiche. I problemi non hanno una e una sola soluzione. Ma chi sceglie nei fatti la soluzione?
Esiste lo spazio potenziale per protagonismi differenziati, per progettualità e responsabilità più diffuse e partecipate. Ma come rendere effettiva la potenzialità?
Se tutto ciò è vero, scattano immediatamente alcuni interrogativi ben precisi, dai quali non è possibile prescindere da un punto di vista etico e culturale. Tali interrogativi riguardano:
- i mezzi attraverso i quali si perviene alla conoscenza. (Qualunque mezzo va bene?);
- le conseguenze e le condizioni organizzative e finanziarie dell’attività di ricerca. (Perché spendere i soldi in certe direzioni e non in altre?);
- le modalità di mediazione tra il sapere scientifico e i concreti bisogni cui rispondere con appropriate tecnologie. (Come si manifestano i bisogni, chi sceglie?).
Credo che su questi punti si possa pervenire a una prima conclusione. Come ha più volte sottolineato Edgar Morin, è in nome della ragione, dell’intelligenza, del buon senso, della preoccupazione di preservare il futuro che occorre sottoporre a critica la non ragione dello scientismo, il culto irriflessivo del progresso, il dogma di un cieco determinismo produttivo, la pretesa della teoria di farsi “dottrina”.
Va sottolineato con forza che il sapere scientifico-tecnologico e le sue potenzialità, la comunicazione con i suoi connotati di interdipendenza planetaria ma anche la paura di processi incontrollabili e incommensurabili in termini di rischio collegato alla fragilità dei sistemi complessi, quasi per assurdo, uniscono in comunità la globalità degli uomini. Qui sta il punto di forza su cui far leva per capovolgere situazioni dominate da ingiustizia ed esclusione che non possono più essere accettate al livello di giudizio della comunità globale. E’ in quest’ottica che occorre ripensare il senso della ricerca scientifica e tecnologica cogliendone altresì i legami con la gestione dell’economia, con il fare politica, con il fare cultura.
Il sapere non può che essere al servizio dell’uomo, di ogni uomo, di tutto l’uomo. Potremmo parlare, a questo proposito, di costitutiva umanità dell’agire scientifico e delle sua applicazioni. Tale costitutiva umanità va colta ed esplicitata in tutte le sue dimensioni etiche, politiche, culturali. Ne consegue che:
-la crescita degli strumenti e dei mezzi ( poco importa se raffinati e sofisticati ) non può essere contrabbandata per crescita umana tout court;
-la ragione tecnocratica e efficientistica non può annullare la ragione umanistica;
-il valore non si estrae ma si crea;
-la modernità non si esaurisce in un mero assemblaggio di innovazioni tecnico – scientifiche trainate dalla sola domanda di mercato. Il mondo dei valori, l’uomo nella sua totalità non possono essere messi tra parentesi.
La scienza non ha soltanto una dimensione oggettiva di indagine rigorosa, ma ha anche una dimensione soggettiva, è un agire intenzionale che non può andare esente da una riflessione sui suoi motivi determinanti. Del pari la ricerca non obbedisce soltanto all’imperativo di conoscere tutta la verità conseguibile in ordine all’oggetto di indagine. Deve confrontarsi anche con altri imperativi che attengono il senso, il valore, il significato dell’impresa scientifica. Occorre pertanto saper operare con la coscienza del limite (limite come responsabilità verso gli altri e fedeltà verso se stessi) e con la consapevolezza delle destinazione comunitaria del sapere e della scienza. Scienza e tecnologia saranno sempre più un bene collettivo. La loro efficacia trascenderà le valutazioni del solo mercato; cresceranno e si svilupperanno attraverso la condivisione solidale.
Ne discendono alcuni impegni ben precisi. L’impegno a non considerare mai definitive le sintesi di sapere già dato; a tenere aperto il rapporto tra risultati conseguiti e le attese di risultati nuovi sempre più ricchi in umanità; a difendere e promuovere la libertà delle persone rispetto a tutte le strutture materiali e immateriali che le condizionano; a spostare in avanti le frontiere di una razionalità che va sempre rigenerata. La conoscenza deve fare i conti con una ineludibile ulteriorità. Ciò non depotenzia le domande ma al contrario le stimola nel dialogo con tutti coloro che si pongono in un atteggiamento di ricerca, nei confronti di una realtà che, come osserva Papa Francesco, non può essere interamente posseduta o dominata, ma piuttosto amata.
In questo quadro l’Università è chiamata prepotentemente in causa. Essa deve riposizionarsi strategicamente dotandosi di una capacità di lettura del cambiamento, promuovendo in maniera né acritica né subalterna interfacce con il sistema socioeconomico territoriale, concorrendo anche a proiettare i sistemi locali in cui essa opera in un contesto internazionale più ampio. Nel contempo l’Università deve realizzare una capacità moltiplicativa e diversificata dei suoi servizi, mettendo a fattore comune più facoltà o scuole, più dipartimenti, rompendo tutta una serie di compartimenti stagni sia organizzativi sia comunicativi che sovente impediscono la consecuzione delle indispensabili masse critiche.
Ci troviamo nell’ambito di una situazione universitaria complessa, dinamica, articolata, che non può però essere ridotta alla chiave interpretativa e normativa del solo mercato. Anche se da esso possono derivare all’Università stimoli molto utili in termini di autonomia, di spinta all’innovazione, di capacità di competere, di rispondere alle esigenze del contesto, essa non può però essere definita dal mercato e non può porsi a valle delle sue convenienze. Con altre parole, per l’ Università esiste la società, la società civile, nel suo complesso e nelle sue articolazioni. Esistono domande di ricerca non remunerative in senso stretto, ma che ciò non ostante sono meritevoli di essere perseguite. C’è la competizione ma c’è anche la solidarietà. Esistono le tecniche, le professionalità, ma esiste anche la cultura.
C’è una questione ineludibile dalla quale non si può prescindere. Che tipo di uomo, o meglio di giovane, preparare per il domani? Per tentare un abbozzo di risposta crediamo sia utile ripartire dai due ruoli fondativi dell’Università, quello di essere ad un tempo istituzione di ricerca e soggetto di formazione. La produzione del sapere e la sua socializzazione critica sono intimamente connessi, o meglio, tali dovrebbero essere. L’Università è luogo fatto di laboratori ma anche di aule, è popolata da ricercatori e da giovani, da giovani portatori di una speranza di futuro. E proprio il rapporto con i giovani può avere per i docenti una valenza quasi epistemologica e metodologica. Il rapporto con i giovani, vissuto in maniera feconda, può garantire all’Università la possibilità di proiettarsi al di fuori dell’immediato, dell’interesse contingente, Con altre parole può contribuire ad evitare di cadere in ottiche meramente positivistiche che finiscono per rinchiudere l’Università in una razionalità limitata e scettica.
Pur nella complessità e contraddittorietà delle situazioni, si apre per l’Università la possibilità di strade nuove. Da parte di molti si percepisce ormai che il progresso e la modernità non possono esaurirsi in un mero assemblaggio di innovazioni tecnico scientifiche trainate dalla sola domanda di mercato. Il mondo dei valori, la sostenibilità, le istanze etiche e spirituali non possono essere messe tra parentesi. Sempre più ci si interroga sulla necessità di radicali cambiamenti di paradigma. Il sapere deve essere al servizio dell’uomo, di ogni uomo, di tutto l’uomo. La comunità universitaria è chiamata a cogliere e ad esplicitare la costitutiva umanità dell’agire scientifico, nell’insieme delle sue dimensioni. Il sapere rinvia sempre a qualcosa d’altro: vi è un principio di non appagamento che si lega alla destinazione universale della scienza.
L’Università può recuperare il suo privilegio costitutivo e strutturale, che è quello di offrire una visione del mondo che non è strettamente tecnico professionale, ma che permette di capire le tecniche e le professionalità, collegandole ad una più generale capacità di giudizio. In un’epoca di esasperati specialismi, l’Università deve farsi anche propositrice di idee generali. Idee generali come quelle di giustizia, di dignità delle persone, di democrazia, di cittadinanza, di solidarietà, di sostenibilità, di bene comune sono il sale della nostra coscienza individuale e collettiva, e una Università a servizio di tali idee non solo non è meno autonoma, ma può ritrovare il senso più autentico della propria missione.